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Morsi e racconti di Natale

Racconti di Natale
Iosif Brodskij, Carlo Levi, Gianni Rodari…

fotografia: Brillante-Severina © roma-gourmet
24 Dicembre 1971, Iosif Brodskij
Siamo tutti, a Natale, un po’ re Magi.
Negli empori, fanghiglia e affollamento.
Gente carica di mucchi di pacchetti
mette un bancone sotto accerchiamento
per un po’ di croccante al gusto di caffè:
così ciascuno è cammello e insieme re.
Con sporte, reti, cartocci, cestini,
e colbacchi, cravatte di traverso.
Odor di vodka, di merluzzo e pino,
di mandarini, di cannella e mele.
Caos di visi, nel turbine di neve
non si vede il sentiero per Betlemme…
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Gianni Rodari, Il pianeta degli alberi di Natale
Marco, bambino terrestre, era andato a trovare Marcus, bambino spaziale.
incontrarono alla stazione interplanetaria.
Lì cominciava la città spaziale, che assomigliava alle città terrestri, con strade, case e piazze.
Ai lati di un viale crescevano due lunghissime file di abeti.
Sui loro rami brillavano stelle, lampadine e palloncini lucenti, rossi, gialli, blu. Erano alberi di Natale.
Scusa – domandò Marco – ma che giorno è oggi?
È Natale – rispose Marcus allegramente.
Intanto si erano avvicinati a un deposito di cavalli a dondolo: Marcus ne scelse uno, con una sella a due posti e invitò Marco a montare in groppa.
Questi sono i nostri «robot» e servono per i trasporti pubblici, come i taxi – spiegò Marcus.
Il cavallo a dondolo partI senza scosse e senza rumore, scivolando come una barca sull’acqua.
Centinaia e centinaia di alberi di Natale grandi e piccoli spuntavano dappertutto, persino sui tetti e nei vasetti da fiori che stavano sui balconi.
A Marco venne un dubbio e chiese: – Marcus, ieri che giorno era?
Natale – rispose Marcus senza esitare.
E che giorno sarà domani?
Natale, Marco, Natale: te l’ho già detto.
Ma se Natale era ieri!…
Ieri, oggi, domani, tutti i giorni. È Natale tutti i giorni, da noi.
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Thomas Mann, Luci e colore di Natale
Si avvicinavano le feste natalizie e il piccolo Johann strappava i fogli del calendario e aspettava col cuore in tumulto il grande giorno.
La gran sala era già misteriosamente chiusa, in cucina si vedevano preparare marzapani e torte brune.
Nelle vetrine brillavano le mostre natalizie.
Intorno all’alta fontana in piazza del mercato erano rizzati i baracconi variopinti della fiera di Natale.
Dovunque si andasse si respirava, col profumo degli abeti messi in vendita, l’odore della festa.
Finalmente arrivò la sera della vigilia.
La nonna si alzò e, mentre tutti intonavano O abete di Natale, varcarono la gran porta spalancata.
La sala da pranzo, odorosa di ramoscelli d’abete, brillava e sfavillava di infinite fiammelle, e l’azzurro della tappezzeria faceva sembrare ancor più luminoso il vasto ambiente.
In quella luce palpitavano come stelle lontane le candeline accese; un abete immenso, alto fino al soffitto, era adorno di fili d’argento, con un Angelo splendente sulla punta e ai piedi un presepio.
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Alberto Moravia, Feste per i furbi
Natale, Capodanno, Befana, chissà perché le hanno messe tutte in fila, così vicine, queste feste. Così in fila, non sono feste, ma, per un poveraccio come me, sono un macello. E qui non si dice che uno non vorrebbe festeggiare il Santo Natale, il primo dell’ Anno, l’Epifania; qui si vuoI dire che i commercianti di roba da mangiare si appostano in quelle tre giornate come tanti briganti all’angolo della strada, così che, alle feste, uno ci arriva vestito e ne esce nudo.
Forse ai tempi che Berta filava, Natale, Capodanno e Befana erano feste sul serio, modeste ma sincere: ancora non c’erano l’organizzazione, la propaganda, lo sfruttamento. Ma dàgli, dàgli e dàgli,. anche i più sciocchi si sono accorti che con le feste si poteva fare la speculazione; e così, adesso, la fanno.
Feste per i furbi, dunque, che vendono roba da mangiare; non per i poveretti che la comprano.
E tante volte ho pensato che per il pasticciere, per il pollarolo, per il macellaio, ‘quelle sono feste davvero , anzi feste doppie: feste perché feste, e poi feste perché in quelle feste loro vendono dieci volte tanto quanto nei giorni che non c’è festa. E così, mentre il disgraziato festeggia le feste a mezza bocca, con la borsa vuota e la tavola scarsa, quelli le festeggiano sul serio,con la borsa piena e la tavola traboccante.
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Carlo Levi, Il cupo-cupo
Il cupo-cupo è uno strumento rudimentale, fatto di una pentola o di una scatola di latta, con l’apertura superiore chiusa da una pelle tesa come un tamburo.
In mezzo alla pelle è infisso un bastoncello di legno.
Soffregando Con la mano destra, in su e in giù, il bastone, si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro, come un monotono brontolio.
Tutti i ragazzi, nella quindicina che precede il Natale, si costruivano un cupo-cupo, e andavano, in gruppi, cantando delle lunghe filastrocche senza senso, non prive di una certa grazia.
In compenso, ricevevano in regalo dei fichi secchi, delle uova, delle focacce o qualche moneta.
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Eduardo De Filippo, Natale in Casa Cupiello
Fa freddo fa freddo, eh questo Natale si è presentato come comanda Iddio, eh Cunce con tutti i sentimenti, si è presentato, e lo deve fare è il mese suo.
Mamma de lu Carmine Cunce ti sei immortalata, ih che belle e schifezza e cafè che hai fatto, mo ti facevo la cioccolata, nu pochettino laschem e tutto caffè…
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C. Andersen, L’albero di Natale
Lontano, lontano, dentro una foresta, cresceva un abete. Il sole gli sorrideva, il venticello scherzava fra i suoi rami, ma l’abete non era felice.
Come son piccino in confronto agli abeti che mi stanno d’attorno! Oh, se potessi anch’io elevarmi su su, come loro, fino a toccare il cielo e avere dei grandi rami tra i quali gli uccelli farebbero il nido!
In autunno, venne il taglialegna e abbattè alcuni fra gli alberi più belli e più forti, che vennero collocati su carri e trasportati lontano. Dove? Il nostro abete era curioso di saperlo.
Oh, se potessi girare il mondo! esclamò l’abete.
Contèntati della libertà della foresta e del bene che ti vogliamo noi dissero l’aria e i raggi del sole.
Ma l’abete non si contentava.
Quando s’arrivò a Natale, fu uno dei primi abeti che caddero sotto la scure. E quando cadde al suolo con un gemito di dolore, un’angoscia lo prese al pensiero di abbandonare, per sempre, quel bell’angolo di foresta e gli alberi che gli erano stati compagni.
Quando si riebbe, si trovò in un vasto ed elegante salotto, fra mobili e ninnoli graziosi. L ‘avevano piantato in un grande mastello ripieno di sabbia, ricoperto di un drappo verde e collocato sopra un tappeto intessuto di vari colori.
Infine, una signora si mise ad adornarlo. Ed ecco, in breve, rami ricoprirsi di reti celle piene di confetti, di mele e noci dorate, di bambole e fantocci. Candeline di cera bianche, rosse, turchine furono collocate dappertutto, e in cima all’albero fu posta una grande stella dorata.
Stasera, disse la signora, quand’ebbe finito di adornarlo, stasera l’accenderemo !
Finalmente le candele furono accese.
Le porte del salotto si spalancarono e una folla di bimbi accorse verso l’abete. I piccini restarono a guardare l’albero in silenzio per un momento; poi scoppiarono in grida di gioia e si trastullarono coi balocchi che furono distribuiti. Nessuno si curò più dell’albero.
Il mattino seguente i domestici lo trascinarono fuori e lo chiusero in un angolo buio del solaio.
Che vuoI dir ciò? fece l’albero tra sè. E seguitò a pensare e pensare. E n’ebbe del tempo per pensare, perchè i giorni passarono senza che alcuno apparisse. Una mattina, vennero a frugare nel solaio.L’albero fu portato in un cortile e gettato tra le ortiche e le erbacce. L’abete ricordò la vita felice del bosco e sospirò: È finita! Fossi stato felice almeno, quando potevo!
Venne un domestico e lo ridusse in tanti pezzi, che poi ammucchiò e accese. Così  l’abete bruciò e finì di vivere.
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Giovanni Guareschi, La favola di Natale
Natale è la festa della famiglia e tutti si danno da fare per trascorrerla insieme in allegria; se gli adulti hanno da fare, i bambini non sono da meno.
In molte famiglie è tradizione che i figli recitino nel giorno della festa una poesia e allora … che fatica imparare le poesie! E se poi in famiglia ci sono più poesie da imparare c’è il rischio che mezzo quartiere sia costretto a impararle.
Forse Margherita ha ragione quando dice che occorre la maniera forte coi bambini: il guaio è che, a poco a poco, usando e abusando della maniera forte, in casa mia si lavora soltanto con le note sopra il rigo.
La tonalità, anche nei più comuni scambi verbali, viene portata ad altezze vertiginose e non si parla più, si urla. Ciò è contrario allo stile del «vero signore», ma quando Margherita mi chiede dalla cucina che ore sono, c’è la comodità che io non debbo disturbarmi a rispondere perché l’inquilino del piano di sopra si affaccia alla finestra e urla che sono le sei o le dieci.
Margherita, una sera del mese scorso, stava ripassando la tavola pitagorica ad Albertino e Albertino s’era impuntato sul sette per otto.
Sette per otto? – cominciò a chiedere Margherita. E, dopo sei volte che Margherita aveva chiesto quanto faceva sette per otto, sentii suonare alla porta di casa.
Andai ad aprire e mi trovai davanti il viso congestionato dell’inquilino del quinto piano  (io sto al secondo).
Cinquantasei! – esclamò con odio l’inquilino del quinto piano.
Rincasando, un giorno del dicembre scorso, la portinaia si sporse dall’uscio della portineria e mi disse sarcastica: È Natale, è Natale è la festa dei bambini – è un emporio generale – di trastulli e zuccherini!
Ecco, – dissi tra me – Margherita deve aver cominciato a insegnare la poesia di Natale ai bambini.
Arrivato davanti alla porta di casa mia, sentii appunto la voce di Margherita:
«È Natale, è Natale – è la festa dei bambini!…».
È la festa dei cretini! -rispose calma la Pasionaria. Poi sentii urla miste e mi decisi a suonare il campanello.
Sei giorni dopo, il salumaio quando mi vide passare mi fermò.
Strano, – disse – una bambina così sveglia che non riesce a imparare una poesia così semplice.
La sanno tutti, ormai, della casa, meno che lei.
In fondo non ha torto se non la vuole imparare, – osservò gravemente il lattaio sopravvenendo. – È una poesia piuttosto leggerina.
È molto migliore quella del maschietto: «O Angeli del Cielo – che in questa notte santa – stendete d’oro un velo – sulla natura in festa…».
Non è così, – interruppe il garzone del fruttivendolo. – «O Angeli del Cielo – che in questa notte santa stendete d’oro un velo – sul popolo che canta…
Nacque una discussione alla quale partecipò anche il carbonaio, e io mi allontanai.
Arrivato alla prima rampa di scale sentii l’urlo di Margherita: «…che nelle notti sante – stendete d’oro un velo – sul popolo festante…».
Due giorni prima della vigilia, venne a cercarmi un signore di media età molto dignitoso.
Abito nell’appartamento di fronte alla sua cucina, – spiegò. Ho un sistema nervoso molto sensibile, mi comprenda. Sono tre settimane che io sento urlare dalla mattina alla sera:
«È Natale, è Natale – è la festa dei bambini – è un emporio generale – di trastulli e zuccherini».
Si vede che è un tipo di poesia non adatto al temperamento artistico della bambina e per questo non riesce a impararla.
Ma ciò è secondario: il fatto è che io non resisto più: ho bisogno che lei mi dica anche le altre quartine. lo mi trovo nella condizione di un assetato che, da quindici giorni, per cento volte al giorno, sente appressarsi alla bocca un bicchiere colmo d’acqua.
Quando sta per tuffarvi le labbra ecco che il bicchiere si allontana.
Se c’è da pagare pago, ma mi aiuti.
Trovai il foglio sulla scrivania della Pasionaria.
Il signore si gettò avidamente sul foglio: poi copiò le altre quattro quartine e se ne andò felice.
Lei mi salva la vita – disse sorridendo.
La sera della vigilia di Natale passai dal fornaio, e il brav’uomo sospirò.
È un pasticcio – disse. – Siamo ancora all’emporio generale. La bambina non riesce a impararla, questa benedetta poesia. Non so come se la caverà stasera.
Ad ogni modo è finita! – si rallegrò.
Margherita, la sera della vigilia era triste e sconsolata.
Ci ponemmo a tavola, io trovai le regolamentari letterine sotto il piatto.
Poi venne il momento solenne.
Credo che Albertino debba dirti qualcosa, – mi comunicò Margherita.
Albertino non fece neanche in tempo a cominciare i convenevoli di ogni bimbo timido: la Pasionaria era già ritta in piedi sulla sua sedia e già aveva attaccato decisamente:
«O Angeli del Cielo – che in queste notti sante – stendete d’oro un velo – sul popolo festante…». Attaccò decisa, attaccò proditoriamente, biecamente, vilmente e recitò, tutta d’un fiato, la poesia di Albertino.
È la mia! – singhiozzò l’infelice correndo a nascondersi nella camera da letto.
Margherita, che era rimasta sgomenta, si riscosse, si protese sulla tavola verso la Pasionaria e la guardò negli occhi.
Caina! – urlò Margherita.
Ma la Pasionaria non si scompose e sostenne quello sguardo. E aveva solo quattro anni, ma c’erano in lei Lucrezia Borgia, la madre dei Gracchi, Mata Hari, George Sand, la Dubarry, il ratto delle Sabine o le Sorelle Karamazoff.
Intanto Abele, dopo averci ripensato sopra, aveva cessato l’azione.
Rientrò Albertino, fece l’inchino e declamò tutta la poesia che avrebbe dovuto imparare la Pasionaria.
Margherita allora si mise a piangere e disse che quei.due bambini erano la sua consolazione.
La mattina un sacco di gente venne a felicitarsi, e tutti assicurarono che colpi di scena così, non ne avevano mai visti neanche nei più celebri romanzi gialli.
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Italo Clavino, I figli di Babbo Natale
Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti.
Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino dànno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale.
L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un’acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni.
Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell’Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l’idea: l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta.
In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra «tredicesima mensilità » e «ore straordinarie».
Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio.
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un pò come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio.
La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. «Dapprincipio, – pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo!»
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. – Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. – Mah… Non vedete come sono vestito?
– E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no?
– E m’avete riconosciuto subito?
– Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
– E il cognato della portinaia!
– E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
– E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
– Tutti vestiti da Babbo Natale? – chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
– Certo, tal quale come te, uffa, – risposero i bambini, – da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, – e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia.
I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S’erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio.
– Si può sapere cosa state complottando? – chiese Marcovaldo.
– Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
– Regali per chi?
– Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
– Ma chi ve l’ha detto?
– C’è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: «Siete voi i bambini poveri!», ma durante quella settimana s’era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare:
– Bambini poveri non ne esistono più!
S’alzò Michelino e chiese: – È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentí stringere il cuore.
– Ora devo guadagnare degli straordinari, – disse in fretta, – e poi ve li porto.
– Li guadagni come? – chiese Filippetto.
– Portando dei regali, – fece Marcovaldo.
– A noi?
– No, ad altri.
– Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: – Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
– No.
– Pazienza -. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d’esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne.
– Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, – disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
– Andiamo, forse troverò un bambino povero, – disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile.
E tutti questi Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle Feste.
E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all’altro segnato sull’elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del  furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
– La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante.
– Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
– La Sbav augura…
– Be’, portate qua, – e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d’occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
– Gianfranco, su, Gianfranco, – disse la governante, – hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
– Trecentododici, – sospirò il bambino – senz’alzare gli occhi dal libro. – Metta lí.
– È il trecentododicesimo regalo che arriva, – disse la governante. – Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
– Papà, quel bambino è un bambino povero? – chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s’affrettò a protestare:
– Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator…
S’interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
«Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l’ha scambiato per me e gli è andato dietro… » Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po’ in pensiero e non vedeva l’ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
– Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato?
– A casa, a prendere i regali… Si, i regali per quel bambino povero…
– Eh! Chi?
– Quello che se ne stava cosi triste.. – quello della villa con l’albero di Natale…
– A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
– Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
– Figuriamoci! – disse Marcovaldo. – Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
– Sí, sí dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano…
– E cos’erano?
– Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…
– E lui?
– Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
– Come?
– Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…
– Cos’era?
– Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza… Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…
– Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?
– Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto più felice. Diceva: « I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! » Ha cominciato ad accenderli, e…
– E…?
– …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. – Sono rovinato!
L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale.
– Alt! – gli dissero, – scaricare tutto; subito!
«Ci siamo! » si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
– Presto! Bisogna sostituire i pacchi! – dissero i Capiufficio. – L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
– Cosi tutt’a un tratto… – commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima…
– È stata una scoperta improvvisa del presidente, – spiegò un altro. – Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi…
– Quel che più conta, – aggiunse il terzo, – è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino… Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell’entusiasmo…
– Ma questo bambino, – chiese Marcovaldo con un filo di voce, – ha distrutto veramente molta roba?
– Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata…
*
Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Uscì un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po’ più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

 

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Aforismi gourmand

*Se t’inganno, prego el
cielo de perdere quello
che gh’ho più caro:
l’appetito.
* Arlecchino
servitor di due padroni

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Lo chef e la Luna

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I carciofi di Caravaggio

Viaggio gourmet
fra vita e opere
di Michelangelo
Merisi
detto
Caravaggio

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Articoli in abbonamento

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Pensiero di Vino

il vino mantiene
l’impronta del
legno in cui è
invecchiato

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Scaffale gourmet

il piacere
del testo goloso

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Piccoli musei

piccoli musei
grandi emozioni

 

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Miscellanea

Miscelannea di articoli e luoghi

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Asian Think

I migliori ristoranti di Cucina Asiatica contemporanea

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Chef’s anatomy

Interviste a *cuochi
e cuoche*

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Puntarelle tempestose

Roma gourmet non acquista nè consuma alcun alimento o bevanda la cui pubblicità strumentalizza il corpo delle donne, offendendone la dignità