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La Morra. Dai turbolenti feudatari medievali alle raffinatezze enogastronomiche di Damiano Nigro e Michele Chiarlo nel settecentesco Palàs Cerequio

Dai turbolenti feudatari medievali alle raffinatezze enogastronomiche di Damiano Nigro e Michele Chiarlo nel settecentesco Palàs Cerequio
Testi e Fotografie Maria Luisa Basile ©

“La Morra! Bel cielo e buon vino”. Questo elogio sull’eccellenza del barolo lamorrese sarebbe stato proferito nientemeno che da papa Pio VII, durante una tappa astigiana del suo viaggio a Parigi per l’incoronazione di Napoleone. Aneddoto da prendere con beneficio di inventario* e preceduto da un illustre precedente apocrifo nei Commentari di Giulio Cesare, la cui esuberanza bellicosa si ritrova secoli dopo anche nei medievali feudatari del luogo, i nobili Falletti. Gente ardita, intraprendente, temeraria e ardimentosa in guerra. Attaccabrighe come pochi, i turbolenti feudatari legano strettamente le proprie vicende alla storia del borgo, in una fitta trama di assedi, saccheggi, devastazioni, e giungendo a moderazione solo nel ‘700, quando il Piemonte raggiunge quella prosperità nella quale si smette di bramare.
Proprio ai Falletti apparteneva il settecentesco palazzo nobiliare (palàs, in dialetto piemontese) trasformato in relais dopo un’opera di restauro da parte della famiglia di storici viticultori piemontesi Michele Chiarlo, e situato accanto al Cerequio, uno dei cru più prestigiosi del Barolo che frange le sue verdi onde di fronte all’edificio patrizio. Ecco spiegato il nome di battesimo del Palás Cerequio a La Morra.
Vi si arriva attraversando La Morra, arroccata sulla sommità di una collina fra le più alte della sponda destra del Tanaro e percorrendo una piacevole strada panoramica. Si può dormire nelle camere-suites, oziare in piscina davanti all’anfiteatro di colline soprannominato non a caso “Riviera delle Langhe” guardando le vigne da cui nascono vini strutturati ed eleganti, visitare il Caveau dove è collezionato mezzo secolo di annate di barolo, oppure godere della cucina elegante e saporosa di Damiano Nigro, giunto alla sua piena maturità professionale.
Arrivato in Piemonte nel 2004, Nigro nasce in Puglia, a Brindisi, da una famiglia di coltivatori e la sua primissima formazione è la cucina delle massaie pugliesi, incentrata sugli ingredienti freschi e di stagione. Nei ristoranti parte dalla gavetta, iniziando come lavapiatti poi promosso a lava pentole. Con la stessa modestia sciorina i nomi dei cuochi illustri con i quali negli anni si è formato. Allievo di Gualtiero Marchesi e Alfredo Chiocchetti, all’estero è in Inghilterra da Michel Roux e Marco Pierre White, in Francia da Alain Ducasse e Alain Solivérès, in Spagna da Martin Berasategui, nel 2020 al Noma per uno stage e prima, all’apertura del Piazza Duomo di Alba, è il secondo di Enrico Crippa.
Amuse bouche e Ginger dello chef Damiano Nigro. Cannolo alla mortadella, Tartina di salmone leggermente affumicato, mini Taco di ceci ai peperoni arrosto, pallina di parmigiana
Pomodoro, gamberi, burrata, pesche
La Langa, territorio così devoto all’enogastronomia, è vista dallo chef come una sfida da affrontare senza eccessivi stravolgimenti: “bisogna solo alleggerire, usando meno grassi, scegliendo grande materia prima e ponendo attenzione all’eleganza della presentazione per appagare anche la vista”.
Il suo menu passa con disinvoltura dalla tripletta plin, tajarin, guancia “che per gli stranieri o per chi non è mai stato in Langa è importante assaggiare” a preparazioni raffinate come la profumata sovrapposizione di pomodori cuore di bue dell’orto coltivati dalla mamma della moglie Elena Boffa (compagna di vita e di lavoro, maître del ristorante), gamberi viola della vicina Liguria, burrata e sottili fette di pesche maturate sugli alberi di fronte al relais. Aromi e profumi ulteriormente esaltati dal Gavi di Gavi Rovereto Michele Chiarlo abbinato.
Un piatto “simile a un lego, dove basta incastrare gusti e colori”, la fa facile lo chef che con gli ortaggi coltivati nell’orto crea anche una sorta di dispensa: conserve e giardiniere, realizzate con la tecnica della lattofermentazione, sono elementi ricorrenti in molti piatti. Un saporito esempio è lo Scampo in ceviche su un profano altarino di pancetta arrosto, giardiniera e salsa al basilico.
Come preparare la pancetta Damiano Nigro lo ha imparato da Ducasse: messa a marinare con pepe, finocchietto selvatico e sale per 12 ore, cotta a bassa temperatura per altre 18, poi raffreddata e posta sotto pressa. Asciugata dal suo liquido, viene arrostita da un solo lato. Caviale di melanzana e profumi di santoreggia accompagnano invece l’agnello proveniente dalla Valle Stura, roseo e tenero boccone insaporito dalla salsiccia nella quale è avvoltolato, accostato a Barolo Cerequio Michele Chiarlo. Nel bicchiere si fa roteare un vino rubino granato che nasce da marne calcaree argillose di origine marina antichissime, nate 9 milioni di anni fa, e capace di travolgere con il profumo generoso, il gusto garbato e armonioso. Sull’etichetta – disegnata da Giancarlo Ferraris – si riconosce la campana che dondola sul Palàs a guardia di uno fra i più prestigiosi cru del Barolo.
Scampo in ceviche, pancetta arrosto, giardiniera lattofermentata e salsa al basilico
Spaghetti trafilati al bronzo “mare mare”
Gli spaghetti trafilati al bronzo lo chef li prepara da sé, con farina di grano italiano coltivato in Sicilia e un formato particolare: ha fatto ingrandire il foro rispetto alla misura canonica, per ottenere uno spaghetto più generoso e morbido. Il condimento è un pescato mediterraneo di Liguria e Sicilia cotto e crudo: vongole, scampi e gamberi (quelli di Mazara li procura un pescatore siciliano di fiducia che è andato a conoscere personalmente) legati da una bisque ottenuta da scampo, pomodori, aglio, basilico e zenzero, sostituto del peperoncino che aggiungerebbe volentieri se si trovasse ad altre latitudini, ma qui preferisce non rischiare.
Agnello avvolto nella salsiccia, perlage di melanzane, cappello di porcino
Albicocche, mascarpone e mandorle
Vini:
Metodo Classico Cuvée Pietro Chiarlo Michele Chiarlo
Gavi di Gavi Rovereto
Barolo Cerequio Michele Chiarlo
Quello dei vini al Palàs Cerequio non è un capitolo, ma una biblioteca. Per capire la passione per il vino – e il barolo in particolare – di queste colline, il Caveau del Palàs andrebbe visitato prima di sedere a tavola, anche solo per ammirare le oltre seimila bottiglie custodite, le teche con le zolle di Cerequio e Cannubi da cui tutto nasce, e la famosa Monografia sulla viticoltura ed enologia nella provincia di Cuneo scritta nel 1879 da Lorenzo Fantini, il primo a mappare le colline di Langa catalogando 82 cru per il Barolo e 34 per il Barbaresco. Per vivere un’esperienza di ebbra felicità, si può passare dalla contemplazione all’assaggio, prenotando degustazioni tematiche orizzontali (diverse etichette della stessa annata) o verticali (stessa etichetta, diverse annate) di barolo e dei più importanti cru delle Langhe, guidate dal sommelier Roberto Stroppiana.
Il Caveau di Palàs Cerequio
Gli spazi esterni del ristorante (aperto a pranzo e a cena) offrono una vista rara, sia che si scelga la terrazza panoramica o l’ombra del frondoso glicine. La sala interna è un moderno parallelepipedo con parete frontale a vetri affacciata sul prato dominato da un imponente albero riflesso nella pozza sempre più lunga della sua ombra e sulle forme minute della cappelletta gentilizia esterna del Palàs (aperta alla visita) al cui interno sfilano le poste della Via Crucis impresse su una collezione di stampe settecentesche.
Oltre il prato, dalla cima della collina di fronte, occhieggia la sagoma del Castello della Volta, sul quale pesa una malasorte tramandata dalla diceria popolare che lo vuole ritrovo di fantasmi, spiriti, inquiete anime penitenti. Il maniero lega infatti lo strano nome a un episodio di secoli fa, quando una festa già poco virtuosa rovinò nel crollo del pavimento, seppellendo sotto le macerie dame e cavalieri gaudenti. Il solo superstite si fece frate e cosa si beveva lo possiamo solo immaginare.
La terrazza panoramica, il glicine, il Palàs Cerequio visto dal prato, la cappella barocca e, in lontananza, il Castello della Volta visibili dalla sala
La magia del vino nobile è ovunque a La Morra, che già negli Statuti del 1402 cita per la prima volta in zona il Nebbiolo (Nebiolium), vitigno coltivato su queste colline privilegiate dal quale ha origine il vino barolo, e non abbandona neppure sulla via del ritorno dove, a pochi passi dalla torre campanaria eretta sui resti del castello scomparso secoli fa, si nota un monumentino dedicato al compositore e direttore di banda Giuseppe Gabetti, autore del primo inno d’Italia, la Marcia Reale. Una musica guizzante ispirata dalle opere di Donizetti e Rossini, o forse, come insinua con malizia il professore e deputato dell’Assemblea Costituente Umberto Calosso, proprio dal barolo.
© Riproduzione vietata

 

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