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Cisrà, le origini della zuppa di ceci e trippa dei pellegrini alla Fiera dei Santi di Dogliani

Cisrà Origini dell’antica zuppa di ceci, verdure e trippa dei pellegrini offerta alla Fiera dei Santi di Dogliani
Testi e Fotografie Maria Luisa Basile

Il mercato è il cuore di ogni paese di campagna, scrive Aldo Spinardi in un libro dedicato alla Resistenza in Langa, aggiungendo che ciò vale sempre, anche nei periodi difficili. Del tradizionale mercato del martedì di Dogliani degli anni Cinquanta del secolo scorso Spinardi descrive la capacità di donare alla città un’aria da giorno di festa nel quale “le signorine si fanno belle anche più che non la domenica e i giovanotti percorrono cento volte, a dir poco, la via maestra” e gli uomini comprano o vendono bestiame, paglia, fascine, sacchi di fagioli, ceci di fronte alla chiesa di San Paolo dalla cupola immensa. La stessa atmosfera di festa, ma amplificata, si respira alla Fiera dei Santi che ogni 2 novembre spennella il centro di Dogliani e gli argini del torrente Rea con i colori di centinaia di bancarelle e spande nell’aria il profumo della Cisrà, una zuppa dalla storia antica distribuita in questa occasione.
Decine e decine di volontari puliscono, pelano e tuffano a bollire nei pentoloni i quintali di verdure e legumi invernali fra cui ceci, porro, zucca che insieme alla trippa e a qualche ingrediente segreto compongono la zuppa, mescolata una notte intera in modo da essere pronta per la distribuzione sin dalle 8.30 del 2 novembre.
Consuetudine doglianese molto sentita e ripresa nel 2021 con tutte le misure di sicurezza dopo la sosta imposta dall’emergenza sanitaria, non sono poche le persone che arrivano anche da fuori per aggiudicarsene una porzione, da gustare in compagnia sotto l’Ala Mercatale insieme a un bicchiere di Dolcetto Dop e ascoltando canti folkloristici
.
La Chiesa della Confraternita dei Battuti, Momenti della Fiera della Cisrà
Un rito antico, nato dall’iniziativa della Confraternita dei Battuti che a metà Settecento decide di riunire le sue due componenti, i Bianchi e i Neri, nella chiesa dalla facciata a mattoni nudi eretta con il contributo di tutti i doglianesi vicino al fiume, per assistere bisognosi e pellegrini giunti a Dogliani a piedi per partecipare alle funzioni religiose per poi magari proseguire il cammino in direzione Compostela, e agli abitanti delle valli che alla fiera andavano a fare scorta di provviste prima dell’inverno. La Confraternita dei Battuti offriva ai pellegrini un giaciglio e a tutti la corroborante zuppa che nei giorni di pioggia si trangugiava all’interno della chiesa stessa. Le origini della Cisrà sono però ancora più remote e si fanno risalire al Seicento, quando era considerata una pietanza modesta destinata ai bisognosi, preparata con le verdure stagionali (grande assente la patata, che si sarebbe diffusa in Piemonte solo nella seconda metà dell’Ottocento) e il quinto quarto, all’epoca scarto e oggi pregiata golosità.
Souvenir dalla Fiera della Cisrà: la tazza da collezione e la sua scatola, salumi (di Somano) e formaggi (di Sinio) artigianali, castagne secche, nocciole, savoiardi e caramelle al miele
Bancarelle della Fiera della Cisrà di Dogliani
La Cisrà è un bell’esempio di cibo che si identifica teneramente con il luogo e ne contrassegna la tradizione, grazie alla perpetuazione del rito della Fiera nella quale la collettività ritrova e rafforza la propria identità. Ogni fiera piemontese si lega a una ricorrenza o a un particolare prodotto tipico della zona, ma nell’attuale società del benessere, questa antica pietanza un tempo distribuita gratuitamente nel giorno dei Santi, rappresenta anche il riscatto del cibo povero, rivalutato e apprezzato non solo o non tanto per le sue qualità nutrizionali, ma soprattutto per il suo valore simbolico, perché – come spiega il professor Gian Luigi Beccaria – in esso si tende a riconoscere un valore perduto e il simbolo di un tempo sano.
La tazza della Cisrà è di un colore diverso a ogni edizione (2021: rosa salmone)
La degustazione della Cisrà ai nostri tempi prosegue anche nei giorni successivi alla Fiera nei ristoranti del luogo, e Dogliani si disvela attraverso un percorso di visita che può partire proprio dalla Chiesa della Confraternita, dove sono tante le storie raccontate da dipinti e affreschi. C’è quello raffigurante in quartetto i santi importanti per la città: Quirico, un santo bambino che la protegge, Santo Stefano con le pietre rette usando l’abito a simboleggiare i sassi zappati via dalle vigne con fatica dai contadini, San Bovo in uniforme dell’antica Roma e, come rivela la mucca sullo stendardo che gli sventola accanto, protettore dei bovini, S. Antonio Abate nume degli animali da cortile – primo fra tutti il maiale, spesso raffigurato ai suoi piedi nei sacri ritratti a evocare la gastronomica tentazione del diavolo nel deserto -. Altre opere sono dedicate a figure femminili, prima fra tutte Santa Teresa D’Avila, dottore donna della Chiesa ma anche mistica, armata di libri e calamaio come pure di flagello e ritratta in trepidante attesa di essere trapassata da una freccia d’oro (dicesi transverberazione) lanciata da un angelo per raggiungere l’estasi dello spirito e della carne; poi ci sono le Marie (non tre, ma quattro) ai piedi di una crocifissione stranamente priva di spettatori maschili; un gruppo scultoreo in legno (forse di fico) raffigurante una Pietà che con il suo dolce peso di 314 chili veniva portato a spalla in processione fino agli anni ’70 del Novecento e dove il Cristo pare addormentato a smorzare la drammaticità della scena. Immagini di devozione per tenere alto lo spirito della Confraternita che volle la Chiesa, pur essendo costituita interamente da laici, uomini e donne impegnati nelle caritatevoli opere per secoli, fino ai primi del Novecento, e oggi sostituita dalle molte associazioni di volontariato che caratterizzano il territorio doglianese.
La Chiesa della Confraternita della Cisrà, fatta erigere a metà Settecento dai Battuti, confraternita che offriva assistenza a bisognosi e pellegrini
La passeggiata di scoperta può proseguire nella parte alta di Dogliani, costeggiando una natura che l’autunno accende di riflessi dorati, rossi e aranciati, verso il Castello (privato) e un ampio Belvedere al quale fa da guardano l’intrico di rami di un imponente ippocastano centenario, per poi approdare al cospetto delle svettanti linee neogotiche del cimitero dove riposa il Presidente Luigi Einaudi che fu profondamente legato a Dogliani, ma anche l’architetto Giovanni Battista Schellino che nell’800 si occupò della progettazione e realizzazione di numerosi edifici religiosi doglianesi senza reclamare alcun compenso. Le tombe di Schellino e di Einaudi sono entrambe semplici, specchio di una sobrietà nello stile di vita molto piemontese forse difficile da associare all’opulenta bellezza della Langa Unesco.
La parte alta di Dogliani, il Presidente Luigi Einaudi e il suo maggiordomo, le case affrescate del quartiere Castello, il Cimitero con ingresso neogotico e la tomba dell’architetto Schellino, la Torrei dei Cessi
Meritano una sosta anche la circolare Torre cosiddetta dei Cessi perché progettata da Schellino per contenere i servizi igienici della caserma oggi usata come deposito, il Museo storico archeologico Giuseppe Gabetti (non il musicista compositore della Marcia Reale il cui busto si ammira a La Morra, ma il critico letterario nato a Dogliani nel 1886), la Bottega del Vino, il Museo e la Biblioteca intitolati a Luigi Einaudi. La biblioteca, donata alla città nel 1963 da Giulio Einaudi in ricordo del padre, con le strette vetrate orizzontali affacciate sul torrente Rea, le librerie semoventi, l’avveniristica forma a strati dipinta di rosso progettata dall’architetto Bruno Zevi, si proponeva come prototipo di biblioteca popolare da replicare in tutta Italia.
A guardarla da fuori, nella sua sola esteriorità, vengono in mente i terrazzamenti delle colline ricoperte di vigne rosse d’autunno, quelle vigne alle quali non a caso Luigi Einaudi restò legato per tutta la vita.
Maria Luisa Basile © Riproduzione vietata
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La biblioteca Luigi Einaudi sul lungofiume

 

 

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